Intestazione



Le mie citazioni preferite

C'è gente che possiede una biblioteca come un eunuco un harem (Victor Hugo)
Il mediocre imita, il genio ruba (Oscar Wilde)
Amicus Plato, sed magis amica veritas – Mi è amico Platone, ma ancora più amica la verità (Aristotele)
Se devi parlare, fa' che le tue parole siano migliori del silenzio (Antico detto cinese)
Contro la stupidità neppure gli dei possono nulla (Friedrich Schiller)
Disapprovo le tue opinioni, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di esprimerle (Voltaire)
Lo stolto ha solo certezze; il sapiente non ha che dubbi (Socrate)
Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole (Ennio Flaiano)

mercoledì 15 agosto 2012

Revival XXXIV

Scherza coi fanti e lascia stare i Santi, si diceva una volta; nel video qui sotto i mitici Gufi dimostrano come sia possibile scherzare anche coi santi, quando non vengano meno il buon gusto e il rispetto. Ciò non impedì al quartetto milanese (come ricorda Nanni Svampa nell'introduzione) di beccarsi, nel clima bigotto e benpensante degli anni '60, una denuncia per vilipendio della religione, finita ovviamente nel nulla.
Sulla canzone Sant'Antonio allu desertu ho trovate, in rete, poche e frammentarie notizie: tutti sono concordi nel considerarla un canto popolare anonimo, chi dice abruzzese e chi pugliese; qualcuno addirittura napoletano, ma evidentemente sbagliando di grosso. Di sicuro è un'opera recente, non anteriore al secolo scorso, visto che vi si parla di farsi la permanente ai capelli... E mi sembra perlomeno strano che di una canzone del XX secolo non si conosca l'autore.
Merita forse ricordare che il Sant'Antonio di cui si parla non è, come alcuni erroneamente credono (ho trovato addirittura su un blog un vecchio post con la canzone riportata anche qui, pubblicato il 13 giugno in occasione della ricorrenza – sic!), il santo portoghese che svolse la sua opera a Padova nel XIII secolo, praticamente coetaneo di Francesco d'Assisi e festeggiato, per l'appunto, il 13 giugno; si tratta bensì di Sant'Antonio Abate, di quasi un millennio precedente, che visse da anacoreta nel deserto della Tebaide attorno al IV secolo e che – secondo la tradizione – fu per tutta la vita assediato e tormentato dal demonio (tema scherzosamente ripreso dalla canzone), del quale si celebra la ricorrenza il 17 gennaio.
Santo chiamato per l'appunto, nel linguaggio popopare, Sant'Antonio del deserto o anche Sant'Antonio del fuoco (da lui proviene il nome fuoco di Sant'Antonio per la malattia herpes zoster). In Lombardia lo chiamano anche Sant'Antoni del purcel sia per l'iconografia che lo raffigura spesso in compagnia di un maiale e che ne fa il protettore dei raccolti e degli animali domestici, sia perché la sua festa cade nel periodo tradizionalmente dedicato alla macellazione dei maiali.
Per concludere, quella che ho scelta non è la versione originale dei Gufi, ma una loro esibizione televisiva di una quindicina d'anni posteriore, in occasione di una reunion che li vide tornare a collaborare per un breve periodo (i Gufi si sciolsero ufficialmente nel 1969); ho trovato irresistibili le smorfie di Gianni Magni, lo scarno accompagnamento alla sola chitarra di Lino Patruno, con Magni e Brivio che fanno gli strumenti con la voce...


Buon ascolto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

sabato 11 agosto 2012

Poesia d'autore

I' cominciai: – Poeta, volentieri
parlerei a que’ duo che insieme vanno
e paiono sì al vento esser leggieri.

Ed egli a me: – Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor gli prega
per quell’amor che i mena, e quei verranno.

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: – O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega.

Quali colombe dal disio chiamate,
con l’ali alzate e ferme, al dolce nido
vengon per l’aer dal voler portate;

cotali uscir dalla schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aer maligno
sì forte fu l’affettuoso grido.

– O animal grazioso e benigno,
che visitando vai per l’aer perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re dell’universo,
noi pregheremmo lui della tua pace,
poiché hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar ti piace
noi udiremo e parleremo a vui,
mentre che il vento, come fa, si tace.

Siede la terra, dove nata fui,
sulla marina dove il Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, che a cor gentil ratto s’apprende,
prese costui della bella persona
che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende.

Amor, che a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte;
Caina attende chi vita ci spense.
Queste parole da lor ci fur porte.

Da che io intesi quelle anime offense,
chinai il viso, e tanto ‘l tenni basso,
finché il poeta mi disse: – Che pense?

Quando risposi, cominciai: – O lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo.

Poi mi rivolsi a loro, e parlai io,
e cominciai: – Francesca, i tuoi martiri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
a che e come concedette amore,
che conosceste i dubbiosi desiri?

Ed ella a me:– Nessun maggior dolore,
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa il tuo dottore.

Ma se a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
farò come colui che piange e dice.

Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancillotto, e come amor lo strinse:
soli eravamo e senz’alcun sospetto.

Per più fiate gli occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso:
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser baciato da cotanto amante,
costui, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi baciò, tutto tremante.
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse;
quel giorno più non vi leggemmo avante.

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangeva sì che di pietade
io venni men così com’io morisse;

e caddi, come corpo morto cade.

(Inferno, V, 73/142)



Buon ascolto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

giovedì 9 agosto 2012

Nina, oh Nina! (Coppie tragiche V)

Nina Giustiniani
Ricorre oggi l'anniversario della nascita di un'importante figura del risorgimento italiano, forse non da tutti conosciuta al pari di altri protagonisti del periodo (eh, sì, anche la storia d'Italia è un filino maschilista, tocca ammetterlo).
La marchesa Anna Schiaffino Giustiniani, detta Nina, nacque a Parigi il 9 Agosto 1807 dal barone Giuseppe Schiaffino di Recco; andò sposa a diciannove anni al marchese Stefano Giustiniani, dal quale ebbe tre figli.
Sono note le sue simpatie per i movimenti patriottici dell'epoca, in particolare per la Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Il suo salotto genovese fu frequentato da figure di spicco del risorgimento; vi si tennero attività di propaganda e di raccolta fondi a favore dei rivoluzionari italiani; all'interno di esso, nel 1830, Nina Giustiniani conobbe (e se ne innamorò) il futuro artefice, anni dopo, della definitiva unità d'Italia, Camillo Benso conte di Cavour, a quei tempi ventenne ufficiale del genio militare.
Cavour, figura conosciutissima del risorgimento, ebbe rapporti ambigui con varie donne, sempre tra il sentimentale e il politico, sui quali la storia ufficiale generalmente sorvola; in un precedente post già parlai di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, detta la vulva d'oro del risorgimento italiano, forse amante del conte, forse solamente suo strumento nel favorire, seducendo l'imperatore Napoleone III, l'alleanza tra Francia e Regno di Sardegna.
Cavour a vent'anni
Nina Giustiniani (sembra sia stato proprio Cavour ad attribuirle per primo il diminutivo col quale passerà alla storia) era già morta da tempo quando il conte tesseva i suoi intrighi con Virginia; ma la relazione tra Nina e Camillo appare di gran lunga più sincera e disinteressata dell'altra.
Di sicuro lo fu da parte di lei: il suo copioso epistolario (più di centocinquanta lettere in un solo anno, e a quei tempi non c'era la posta elettronica, e neppure quella prioritaria) testimonia un amore appassionato ed esclusivo, che si tinge di disperazione quando sente il suo amante allontanarsi da lei: Cavour, che pure in certi periodi corrispose con passione, era troppo volubile e troppo preso dalla politica, dal gioco e dalla vita mondana, per ricambiarla con pari intensità.
L'ultimo incontro tra i due avvenne a Voltri nell'autunno del 1834; da allora Nina continuerà a scrivere lettere appassionate a Camillo (alcune addirittura in genovese) ricevendone risposte sempre più tiepide e sprofondando sempre più nella depressione e nell'instabilità mentale.
Il 30 Aprile 1841, all'età di trentatré anni e dopo altri due tentativi di suicidio andati a vuoto, Nina Giustiniani trovò alfine la sospirata morte gettandosi dalla finestra di palazzo Lercari a Genova, allora sua residenza. Nella sua ultima lettera a Cavour scrisse:
“La donna che ti amava è morta. Ella non era bella, aveva sofferto troppo. Quel che le mancava lo sapeva meglio di te. È morta, dico, e in questo dominio della morte ha incontrato antiche rivali. Se essa ha ceduto loro la palma della bellezza nel mondo ove i sensi vogliono essere sedotti, qui ella le supera tutte: nessuna ti ha amato come lei. Nessuna!”.

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò

lunedì 6 agosto 2012

Gli oggetti del tempo andato

Dedicato a Elisa

È stato un post di Elisa (leggerevolare) a proposito di un libro scritto da Francesco Guccini, a convincermi a ripubblicare questo mio post, comparso su Splinder circa quattro anni fa.

Abituati come siamo a convivere con personal computer, connessioni wireless, auricolari bluetooth e altre diavolerie del genere, quasi ci sorprendiamo nel rivedere oggetti che fino a qualche decennio fa erano d'uso comune e che oggi possono sembrare pezzi di antiquariato.
Ve ne presento alcuni che ho avuto modo di vedere in uso nella mia infanzia, sperando di destare un sorriso di nostalgia tra gli amici della mia età, e la curiosità di quelli delle generazioni successive (le foto sono di repertorio, ma ho avuto cura di scegliere gli oggetti più somiglianti a quelli che ho personalmente usato, o visto usare):

Il macinino: ai tempi in cui si era ben lontani dal trovare nei negozi le odierne confezioni ermetiche sottovuoto, il caffè (che si preparava con la classica caffettiera napoletana, prima dell'avvento della rivoluzionaria moka express) si comprava in grani in drogheria e lo si macinava a mano: attività generalmente riservata ai ragazzini i quali, ben felici di rendersi utili, si sedevano in un cantuccio, il macinino stretto tra le ginocchia, e giravano compunti la manovella, aspirando voluttuosamente l'aroma sprigionato dai chicchi di caffè...

Il tosta-caffè: la massiccia emigrazione verso il nuovo continente, avvenuta nel periodo tra le due guerre, ha fatto sì che quasi tutte le famiglie avessero qualche parente americano (i miei erano per lo più in Argentina e in California), che spesso portava o inviava in Italia sacchetti di caffè grezzo, che veniva tostato in casa, con l'uso di un cilindro posto su un supporto ed esposto alla fiamma della carbonella accesa (ma anche, con un supporto semplificato, delle prime cucine a gas). Ne esisteva anche un tipo verticale (una sorta di padella chiusa con una maniglia per agitare il caffè all'interno), al quale si riferisce l'immagine qui accanto.
La bombilla: un altro prodotto esotico che i parenti sudamericani ci fecero conoscere e apprezzare fu il mate (yerba mate in spagnolo), un infuso simile al the che si prepara in un contenitore fatto con una piccola zucca svuotata e si beve con la bombilla, una cannuccia metallica che porta all'estremità un filtro bucherellato per evitare di aspirare, assieme alla bevanda, le foglioline. Sono famose alcune foto di Ernesto Che Guevara che sorbisce il mate con la bombilla nelle foreste boliviane, durante le pause della sua attività di guerrigliero...
L'arcolaio (o dipanatoio): le nostre madri e le nostre nonne erano in genere abilissime nel lavorare a maglia, e confezionavano in continuazione maglioni e sciarpe per tutta la famiglia: la lana, comprata in matasse, doveva essere dipanata e riavvolta in forma di gomitolo per la successiva lavorazione.
La più rudimentale forma di dipanatore erano... i polsi delle mani!
Generalmente, al solito, era un bambino a tener tesa tra le braccia la matassa, mentre la madre avvolgeva rapidamente il gomitolo... Ma di gran lunga più comodo era l'uso di un arcolaio a pantografo, solitamente in legno, che sorreggeva la matassa durante lo svolgimento.
Lo scaldaletto: nelle case di un tempo, dove l'unica stanza riscaldata (dal camino o dalla stufa a legna) era la cucina, infilarsi in un letto gelido era un'esperienza – è il caso di dirlo! – da brivido. I più antichi scaldaletti erano piccoli bracieri chiusi dove si metteva carbonella, o sansa d'olive accesa, e che popolarmente erano chiamati preti; quelli che ho avuto modo di provare nell'infanzia erano bottiglie di rame con un tappo a vite, che si riempivano d'acqua bollente, si avvolgevano in un panno e s'infilavano tra le lenzuola per scaldarsi almeno i piedi...
Il lume a petrolio e la lampada ad acetilene: in molti paesi di montagna, abitati fino agli anni sessanta, la corrente elettrica non è mai giunta. Per farsi luce di notte si usavano i lumi a petrolio o le più efficienti lampade ad acetilene: si comprava in drogheria il carburo di calcio, un minerale biancastro dall'odore acre che a contatto con l'acqua sprigiona acetilene, un gas combustibile che brucia con una fiamma bianca e luminosissima; il carburo va posto nel recipiente inferiore, mentre quello superiore, avvitato su di esso, è riempito d'acqua, che tramite una valvola a spillo, comandata da un regolatore a vite, vien fatta gocciolare sul carburo; l'acetilene che si forma fuoriesce tramite un tubicino che termina in un ugello calibrato, e si accende con un fiammifero; l'intensità della fiamma viene regolata dall'apertura della valvolina, e ovviamente la lampada si spegne serrando a fondo il regolatore.
Il mortaio: questo è un attrezzo che molti amatori della gastronomia tradizionale usano ancora... In Liguria era d'obbligo per la preparazione del pesto: le foglioline di basilico erano poste nel mortaio di marmo con aglio e sale grosso, e laboriosamente frantumate col pestello di legno... ma oggi è per lo più un pezzo d'arredamento, che molti usano come soprammobile o portafiori... e il pesto lo si fa nel frullatore elettrico...
L'incudine da calzolaio: prima di buttare le scarpe, nelle frugali famiglie di un tempo, le si risuolavano più volte, sicché tra gli attrezzi di casa trovava normalmente posto anche un piccolo corredo da calzolaio: lesina, martello, chiodi e bullette, fogli di cuoio, incudine... quella che ricordo di aver visto usare a mio padre era simile a questa...
Il ferro da stiro: i modelli più arcaici avevano un contenitore dove si metteva brace di carbone accesa, e non ricordo di averli mai visti usare da nessun parente... mentre erano ancora in uso quelli di ghisa massiccia da scaldare sulla stufa: si usavano normalmente in coppia, o a gruppi di tre; il più caldo lo si usava per stirare mentre gli altri stavano posati sulla stufa accesa; quando il calore scemava lo si sostituiva con uno più caldo e così via, a rotazione...
Il pitale: eh, sì, c'era anche questo nelle gelide case di una volta, dove di solito le latrine erano all'esterno dell'abitazione, in un angolo del cortile o di un terrazzino... e andare a far pipì in pieno inverno poteva significare dover spalare la neve per un tratto di qualche metro... cosicché tutti custodivano il proprio vasino da notte sotto il letto...
Al giorno d'oggi in casa si trovano solo i vasini in plastica dei bimbi... e quello del nonno magari su un davanzale, ridotto a vaso da fiori...

Un saluto e un sorriso dal vostro 
Cosimo Piovasco di Rondò

venerdì 3 agosto 2012

Cineforum – Piccoli e grandi film d'ogni tempo (IV)

(Nota a margine (ne farò parecchie in questi primi post, per soddisfare le perplessità di chi non mi conosca): poiché questo blog è l'ideale continuazione del precedente, la numerazione delle categorie che la possedevano prosegue anziché ripartire da uno; non stupitevi dunque di questa quarta scheda film).



Il pranzo di Babette (Babettes gæstebud, Danimarca, 1987, col, 102 min)
Regia: Gabriel Axel
Interpreti: Stéphane Audran, Birgitte Federspiel, Bodil Kjer, Jarl Kulle, Jean-Philippe Lafont, Bibi Andersson
Soggetto: Isak Dinesen (Karen Blixen), dall'omonimo racconto
Sceneggiatura: Gabriel Axel
Fotografia: Henning Kristiansen
Musiche: Per Nørgaard




In paradiso, Babette, voi sarete la grande artista
che Dio ha voluto foste.
Oh, come incanterete gli angeli!

La trama: In un villaggio danese di fine ottocento le belle figlie (Federspiel e Kjer) del rigido e un po' dispotico decano protestante, che le ha battezzate Martina e Filippa in onore di Martin Lutero e di Filippo Melantone, dedicano tutta la vita, anche e soprattuto dopo la morte del padre, alla cura spirituale della piccola comunità, rinunciando ad ogni ambizione terrena e anche all'amore, l'una per lo scapestrato ufficiale di cavalleria Lorens Lowenhielm (Kulle), l'altra per il raffinato cantante lirico francese Achille Papin (Lafont).
Anni dopo la morte del decano, bussa alla loro porta una parigina, Babette Hersant (Audran), ex communard perseguitata dalla reazione, che reca una lettera di raccomandazione di Achille Papin; le due sorelle l'accolgono al loro servizio, trattandola più come una della famiglia che come una domestica, benché un po' turbate dal dover dividere il tetto con una papista (come i protestanti rigorosi chiamano i cattolici).
Babette si fa benvolere in breve da tutti gli abitanti del villaggio; dopo aver vinta una grossa somma ad una lotteria francese alla quale gioca da anni, chiede alle due sorelle di poter organizzare a sue spese un vero pranzo francese per festeggiare, come d'uso ogni anno, l'anniversario della nascita del decano. I preparativi del pranzo lasciano sbigottiti e scandalizzati i paesani, che vedono giungere carriole cariche di tartarughe vive e quaglie in gabbia, e turbano i sonni delle due sorelle, già addolorate nell'assistere ai continui litigi dei loro protetti, che non riescono a tenere a freno con la stessa autorità del padre, e timorose di accogliere le tentazioni del demonio in casa propria con quei cibi inusitati e peccaminosi.
Al pranzo, i perplessi commensali scioglieranno ben presto i loro dubbi e si lasceranno contagiare dalle delizie esotiche cucinate da Babette e dalle abbondanti libagioni di raffinati vini francesi che le accompagnano, pur non riuscendo a comprenderle del tutto; solo Lorens Lowenhielm, ormai generale, tornato in visita al villaggio e a sua volta ospite alla cena, riconoscerà, sbigottito, nella mano dell'invisibile cuoca quella di uno dei più grandi chef francesi, da lui conosciuto ed apprezzato a Parigi.
E anche le sorelle grideranno al miracolo vedendo, alla fine del pranzo, il loro piccolo gregge abbracciarsi in un impeto di affetto che sembrava ormai scomparso da tempo.

Il commento: Un regista poco conosciuto firma un autentico gioiello di sensibilità e di poesia; con stupefacente precisione e modestia, Gabriel Axel ricalca la sceneggiatura, quasi parola per parola, sul racconto originale di Karen Blixen, giungendo al punto di ricorrere ad una voce narrante fuori campo che legge lunghi estratti dal racconto stesso.
Il risultato, lungi dall'essere stucchevole o artificioso come ci si potrebbe aspettare, conduce per mano – grazie al tocco lieve e rispettoso, ma al tempo stesso sicuro, del regista – lo spettatore in una narrazione dove tutto è perfetto: dalla fotografia, i cui colori tenui e sfumati richiamano quadri d'autore e rivestono di un fascino sottile i paesaggi danesi, alla recitazione, sempre sommessa e sottotono, dei bravissimi interpreti, che incorniciano a dovere il risalto della protagonista.
Indimenticabili alcuni momenti del film: il duetto del “Don Giovanni” tra Achille Papin e una delle sorelle, carico di una grazia estrema e percorso da sottili e trattenuti brividi di erotismo, tutto recitato in francese (e onore, una volta tanto, all'editore italiano che ha evitato un inopportuno doppiaggio!); la lunga sequenza del pranzo, coi commensali dapprima stupiti, poi estasiati dalle prelibatezze loro cucinate, e col generale Lowenhielm che sospetta di aver perso il senno nel riconoscere, nello sperduto e frugale villaggio danese, vini e cibi della grande cucina francese, e che alla fine improvvisa un commosso discorso sulla grazia divina che i commensali capiranno poco ma apprezzeranno molto.
Impossibile da descrivere, invece, il perfetto equilibrio tra malinconia e sorriso, tra commozione ed umorismo, che pervade tutto il film e che regista e interpreti riescono a rendere con singolare efficacia.
Meritatissimo l'Oscar per il miglior film straniero ottenuto nel 1988, così come la menzione speciale della giuria al Festival di Cannes 1987; per la bravissima Stéphane Audran, solo il Premio Robert (un riconoscimento dell'accademia cinematografica danese istituito nel 1984) per la migliore attrice protagonista nel 1988.

Curiosità: Isak Dinesen è sì uno pseudonimo utilizzato da Karen Blixen, ma fa riferimento al suo vero cognome: la scrittrice danese si chiamava infatti Karen Christentze Dinesen, baronessa von Blixen-Finecke; il titolo nobiliare le venne dal marito (e cugino) Bror von Blixen-Finecke, che sposò nel 1914 e dal quale divorziò nel 1921.

Un saluto dal vostro
Cosimo Piovasco di Rondò